Peste e untori nel 1630: la terribile storia di Gian Giacomo Mora a Milano

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Scopriamo insieme la storia di Gian Giacomo Mora a Milano. Il 1630 è un anno di grande paura e allarmismo nel capoluogo meneghino, diventato regno indiscusso degli untori.

La peste manzoniana del 1630

Nel 1630 la città di Milano era in ginocchio. Dall’anno precedente un’epidemia di peste senza precedenti flagella il capoluogo meneghino, decimandone di fatto la popolazione. Le perdite sono altissime, in un’area già colpita da una terribile carestia. Manzoni racconterà la piaga cittadina nel suo capolavoro letterario, I Promessi Sposi. È in questo contesto che si colloca la vicenda di Gian Giacomo Mora a Milano.

La pestilenza durò ben quattro anni, dal 1629 al 1933, e si diffuse in tutto il nord Italia e nel Ducato di Toscana. Il Ducato di Milano fu tra le zone più colpite e registrò il numero più alto di vittime. Nella sola Milano si calcola una diminuzione della popolazione attorno al 26%, con un totale di 64.000 morti.

Il primo caso milanese

La peste a Milano arrivò nell’ottobre del 1929. Pietro Antonio Lovato, di ritorno da un viaggio nella zona di Lecco, viene ricoverato presso l’Ospedale Maggiore, dove morì in meno di 48 ore.

Sul suo corpo furono immediatamente rinvenute chiare tracce della malattia, e i parenti vennero subito isolati nel Lazzaretto. I suoi pochi averi vennero bruciati, e stessa sorte subì il letto in cui morì. I provvedimenti furono presi in tempi brevissimi. Il baratto venne ufficialmente vietato e vennero rese obbligatorie le “bollette personali di sanità”, ma non bastò. In inverno l’epidemia sembrava essersi calmata, grazie soprattutto al freddo, prezioso alleato. Ma era solo la quiete prima della tempesta.

La situazione precipita

Subito dopo il Carnevale, le morti cominciarono ad aumentare sensibilmente. Dopo la comparsa dei sintomi si calcolavano tre giorni di agonia, in attesa di morte certa. La primavera portò con sé anche le preoccupanti voci sugli untori, loschi individui che si aggiravano per i quartieri infestando maniglie, panche e porte con il morbo. La popolazione era terrorizzata da queste figure, segnalazioni e allarmismo si diffusero a macchia d’olio.

 

Gian Giacomo Mora a Milano

Ed è questa l’atmosfera in cui ritroviamo il nostro Gian Giacomo Mora a Milano. La mattina del 21 giugno del 1630, Porta Ticinese e il Carrobbio si svegliarono ricoperte di un’untuosa sostanza giallognola. Dopo aver ascoltato numerose testimonianze degli abitanti della zona, il Capitano di Giustizia decise che vi poteva essere un solo colpevole.

Guglielmo Piazza

Il riprovevole gesto venne attribuito, probabilmente erroneamente, a Guglielmo Piazza. L’uomo in realtà spiegò che quella mattina in effetti aveva percorso proprio le stesse vie del presunto untore, ma unicamente per svolgere il proprio lavoro. In quanto membro della commissione di sanità infatti, il piazza annotava il numero dei morti e le case abbandonate. Tuttavia il Capitano di Giustizia aveva bisogno di un capro espiatorio, e dopo numerose torture l’uomo confessò il crimine per disperazione.

Le false accuse

Secondo la sua storia, l’unzione gli era stata ordinata dietro lauto pagamento da un barbiere, che tra l’altro fabbricava la sostanza incriminante nel retrobottega. Il presidente di sanità fa immediatamente visita alla bottega di Gian Giacomo Mora, che lavorava insieme al figlio Paolo Gerolamo.

In effetti, l’uomo ha qualcosa da nascondere. Da qualche tempo produce nella sua bottega un unguento anti-peste. L’intruglio venne classificato dai periti inviati dal Senato come tossico e pericoloso, e dopo aver subito lo stesso trattamento del Piazza Mora confessò. In questo modo, il barbiere firmò di fatto la sua condanna a morte. Il Piazza e il Mora vennero brutalmente torturati e uccisi pubblicamente il primo agosto 1630.

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